Fig. 1 G. B. Falda, «Piazza di corte ad Ariccia»

Image

Fig. 1 G. B. Falda, «Piazza di corte ad Ariccia»

Luce del Barocco ad Ariccia | 2

Il curatore Francesco Petrucci introduce la mostra a Palazzo Chigi e analizza tre opere esposte

Dal 2 ottobre al 10 gennaio si tiene presso Palazzo Chigi ad Ariccia (Roma) la mostra «La Luce del Barocco. Dipinti da collezione romane», organizzata dal Centro Europeo per il Turismo e la Cultura di Roma con il sostegno di Acea Spa, a cura del sottoscritto e in collaborazione con vari studiosi (Alessandro Agresti, Andrea Bruciati, Francesca Cappelletti, Paola Caretta, Massimo Francucci, Margherita Fratarcangeli, Erich Schleier, Guendalina Serafinelli). Uno spazio specifico nel percorso espositivo è dedicato ad Acea, a testimoniare il grande impegno della società nel promuovere anche il nostro patrimonio artistico attraverso un’opera professionalmente eccezionale di illuminazione dei più grandi e importanti monumenti del territorio, punto di attrazione di milioni di turisti.

L’arte barocca, che a Roma trova la sua origine e le sue più alte manifestazioni, è concatenata al tema della Luce, che in tale espressione artistica tipica del cattolicesimo si carica di significati simbolici e mistici, legati alla grazia e alla redenzione dell’uomo, di cui è visualizzazione. Pensiamo alla luce nei quadri di Caravaggio e nelle opere del Bernini.

Palazzo Chigi ad Ariccia, ideato da Bernini per la famiglia del papa Alessandro VII, è luogo particolarmente adatto per ospitare tale mostra, essendo sede del Museo del Barocco romano e una della dimore barocche più importanti d’Italia. Ariccia stessa, trasformata da Bernini in città ideale barocca, ne conserva molte. La Chiesa Collegiata dell’Assunta, capolavoro della sua maturità, ove Luce fisica e Luce divina formano un’unità in chiave simbolica, è una concreta espressione del valore salvifico della Grazia (fig. 1, 2).

Una mostra legata al tema della Luce in questo particolare momento che stiamo vivendo vuole esprimere speranza e rinascita, dopo mesi di segregazione forzata. La Luce ha da sempre un valore metaforico connesso alla nascita, al risveglio dopo la notte, alla resurrezione della natura dopo l’inverno e per il cattolicesimo a un messaggio di speranza di vita eterna. Il Barocco quindi, che del cattolicesimo è la massima espressione artistica, è lo stile più adatto per veicolare un messaggio ottimistico di riscatto umano e sociale dopo la pandemia.

In mostra importanti dipinti di artisti di chiara fama provenienti da collezioni private romane, in gran parte inediti o mai esposti al pubblico. L’esposizione vuole incentivare e promuovere il collezionismo, come agente culturale del rinnovamento della ricerca, motore economico del settore e tramite di arricchimento di collezioni pubbliche, ove spesso le raccolte private confluiscono per lasciti e donazioni, come nel caso di Ariccia (donazioni Fagiolo, Ferrara, Lemme, Laschena ecc.).

Opere di Bernini e della sua cerchia sono esposte insieme a dipinti di Giovanni Baglione, Mattia Preti, Agostino Tassi, Gaspar Dughet, Sebastiano Conca, Pierre Subleyras e altri maestri del Sei e Settecento e offrono una larga panoramica sulla pittura romana per quasi due secoli. La mostra è articolata in vari generi pittorici, tra ritratti, pittura di figura a soggetto sacro e profano, paesaggi, vedute e nature morte. Motivo conduttore è la Luce come motivo espressivo, formale e simbolico.

Presentiamo in anteprima tre opere, un’allegoria, una composizione a soggetto evangelico e un ritratto, per le quali rimandiamo a La Luce del Barocco. Dipinti da collezioni romane, catalogo della mostra, a cura di F. Petrucci, Roma, Gangemi Editore International, 25 euro.

Un angelo allegorico di Bernini da Casa Bernini
Tra i dipinti in mostra che esprimono al meglio la concettualità barocca legata alla mistica della Luce vi è uno straordinario «Angelo allegorico» proveniente da Casa Bernini (fig. 3, olio su tela, cm 75,5 x 55). Il dipinto, la cui prestigiosa provenienza è documentata dall’antico sigillo in ceralacca con stemma Bernini-Maccarani pertinente al matrimonio tra Paolo Valentino Bernini (1648-1728) e Maria Laura Maccarani, è conservato da secoli presso gli eredi del sommo artista senza soluzione di continuità. Potrebbe forse corrispondere a «un Quadro di un Angelo» citato nell’inventario dei beni ereditari «del Sig.r cav.re Gio: Lorenzo Bernini» aggiornato nel 1731, anche per la cornice in «tela da testa» precedentemente adattata a un ritratto del cardinale Scipione Borghese.

Comunque, come ha potuto documentare Rosella Carloni, viene citato esplicitamente per la prima volta nell’inventario ereditario dei beni di Prospero Bernini senior (1694-1771) del 12 agosto 1771, descritto assieme al famoso «Sanguis Christi»: «Due quadri di misura da testa avantaggiati per alto uno rapp.e un Angelo in aria, vestito di Bianco, L’altro la S.ma Trinità con Cristo in Croce che versa Sangue originali del Cavalier Gio: Lorenzo Bernini con cornici liscie dorate» (fig. 4, Archivio di Stato di Roma, Trenta Notai Capitolini, off. 29, notaio Giuseppe Simonetti, vol. 428, c. 528 v.). Un riferimento molto attendibile poiché Prospero era primogenito di Pietro Valentino, scultore e figlio del Cavaliere, che si presume sapesse bene che cosa aveva in casa.

Tale accostamento sembra rimarcare la complementarietà simbolica e attributiva tra le due opere, simili anche nelle cornici, nel formato e nelle dimensioni, se prendiamo in considerazione la versione del Museo di Roma proveniente sicuramente da Casa Bernini (76,7x49,7 cm). La presente come allegoria dell’«Amore Divino» che domina la terra, simboleggiato dal cuore tenuto dall’angelo nella sinistra e la fiamma nella destra, sotto la luce della radiazione salvifica della Grazia. La seconda, più esplicitamente, quale metafora del sacrificio estremo che redime.

Verrebbe anzi da pensare che il «Sanguis Christi» (1670 ca) sia stato concepito come pendant della presente tela, dipinta presumibilmente attorno al 1635 quale effettivo precedente del berninismo chiarista di Borgognone, Baciccio e Ludovico Gimignani. Il quadro torna nell’inventario testamentario di Prospero Bernini junior del 1858 al numero 23 come «Una figura alata allegorica di palmi 2 incirca» (Roma, archivio eredi Bernini; Ariccia, Archivio di Palazzo Chigi). È ancora presente nel Catalogo e stima dei dipinti e delle sculture di proprietà della famiglia Forti e provenienti dalla successione di Casa Giocondi erede di Gian Lorenzo Bernini, compilato il 20 febbraio 1964 da Giuliano Briganti, che avanzò un’ipotetica attribuzione a Carlo Pellegrini (Roma, archivio Forti, n. 11).

Pubblicato dal sottoscritto come autografo di Giovan Lorenzo Bernini (Napoli 1598 - Roma 1680), con le conferme di Marcello Fagiolo e Rosella Carloni, viene considerato di mano di Pellegrini, ma su disegno del Bernini da Tomaso Montanari e Fabrizio Federici. Tali giudizi sono comunque anteriori al ritrovamento dell’inventario del 1771 e alla corretta identificazione dello stemma in ceralacca.

Come ho sottolineato, sono evidenti i rapporti stilistici con il «David condottiero» già collezione Incisa della Rocchetta (1630 ca) (documentato come autografo berniniano in tutti gli inventari Chigi sin dal 1667, sebbene alcuni studiosi a partire da Porcella (1931) lo riferiscano a Pellegrini), il «Ritratto di giovane» della Pinacoteca Vaticana (1630 ca) e «Il Martirio di san Maurizio» (1638-40) già nella Basilica Vaticana oggi nella medesima pinacoteca, mentre l’iconografia ricorda l’incisione di François Poilly su disegno di Bernini raffigurante «L’Aquila tra Sole e Terra» nel volume di Nicolò Zucchi Optica Philosophia del 1652.

Il «Transito di san Giuseppe» del Cavalier Beinaschi
Il dipinto (fig. 5, olio su tela, 144x175 cm, Ariccia, Palazzo Chigi, deposito da collezione inglese), certamente uno dei capolavori della vasta produzione di Giovan Battista Beinaschi (Fossano 1634 ca. - Napoli 1688), è una applicazione nell’ambito del tenebrismo barocco delle novità introdotte da Caravaggio dal punto di vista espressivo e simbolico sul tema della Luce.
La tela ricomparve in asta da Christie’s a Londra nel 1949 come opera di Giovanni Lanfranco, artista particolarmente ammirato dal pittore piemontese, che qui fornisce un eccellente esempio delle proprie capacità compositive, di tecnica pittorica e controllo luministico. Il santo morente è raffigurato in scorcio diagonale e laterale da dietro, disteso sul letto, inondato da una luce potente che piove dall’alto, investendo anche il Cristo benedicente e la Madonna raffigurata in atteggiamento di serena accettazione e controllata mestizia, mentre un angelo e cherubini devoti assistono commossi alla scena. La fine del giusto, come qualsiasi padre vorrebbe, circondato dall’affetto dei più stretti congiunti e irradiato di grazia benefica.

Il pittore riesce a disegnare con la luce l’anatomia del vecchio, facendo emergere dalla tenebra la muscolatura tesa del braccio nella contrazione muscolare che precede l’esalare dell’ultimo respiro, la pelle raggrinzita del torso, la posa naturalissima della mano sinistra e il controluce della barba, con tocchi veloci e sicuri, di grande maestria. Gioca nella penombra, con analogo virtuosismo, con le altre figure, comprimarie del santo in una scena solennemente mistica e intimamente terrena nel contempo.

Una copia forse di bottega si trova nella Cattedrale di Notre Dame du Rosaire a Saint-Ouen, ma il risultato è modesto come è stato possibile verificare recentemente attraverso una buona riproduzione fotografica. Ricordo che nell’inventario napoletano di Carlo Ceva Grimaldi duca di Telese era presente «Un quadro di palmi 6 per 8 coll’effigie della Morte di S. Giuseppe della Scola di Benaschi in parte rappezzato per ducati sei…», ma non sappiamo se fosse desunto dalla presente composizione come la copia di Saint-Ouen (G. Labrot, 1992).

Un Ritratto di Juan Tomás Enriquez de Cabrera, conte di Melgar
La luce diventa strumento comunicativo e strutturale anche nella grande ritrattistica barocca, plasmando i volti e facendone risaltare la espressività, a partire dall’esempio dei maggiori interpreti del genere: Van Dyck, Bernini e Velázquez. In mostra è presente in anteprima un importante inedito di Jacob Ferdinand Voet (Anversa 1639 - Parigi 1689), tra i massimi specialisti della seconda metà del Seicento, ritenuto perduto sino ad oggi e presentato in questa mostra (fig. 6, olio su tela, 75x61 cm).

Il ritratto, ricomparso sul mercato antiquario americano nel marzo 2020 come «Portrait of a young man» attribuito a Jacob Ferdinand Voet, proviene dagli eredi del noto avvocato ebreo antifascista Giuseppe Calabi (1887-1957), padre di Tullia Calabi Zevi, la cui famiglia, residente a Milano, si trasferì negli Stati Uniti in conseguenza delle leggi razziali. I Calabi, rimasti in Svizzera e poi per un anno in Francia, nell’estate del 1939 si imbarcarono dal porto di Le Havre per New York.

Le opere d’arte raccolte dalla famiglia erano partite qualche mese prima, come testimonia la targhetta dello spedizioniere datata 4 marzo 1939. Secondo la testimonianza di Tullia Zevi, molti pezzi importanti della collezione Calabi, tra cui questo, si salvarono poiché Fernanda Wittgens, storica dell’arte e ispettrice di Brera, chiamata per una consulenza sulla raccolta, per salvarla e permetterne l’esportazione dichiarò che erano tutte croste o cose di scarso valore.
L’attribuzione a Voet può essere senz’altro confermata per motivi stilistici, con una probabile datazione tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del secolo XVII, quando l’artista risiedeva prevalentemente a Roma, esclusa una temporanea assenza a seguito dell’esilio imposto da Innocenzo XI nel 1676 per condotta immorale e la sosta a Milano nel 1680 (F. Petrucci, 2005).

Il ritratto si distingue per una qualità molto alta dell’esecuzione, che approda a una rara intensità espressiva e a un risentito verismo. La figura, come da consuetudine nell’artista, è immersa nella penombra di una stanza appena illuminata sulla destra per farla risaltare. Il trattamento dell’incarnato è di forte impatto realistico, ottenuto attraverso ben ponderate velature, nella sapiente distribuzione della luce proveniente da una sorgente laterale a sinistra, che plasma il volto con intensità mutevole assecondando il rilievo della parti.

Lo sguardo è profondo e indagatore, nella trasparenza dell’iride dal colore verdastro, le labbra morbide ottenute con leggerezza di tocco, la folta capigliatura leggera e vaporosa, pur presente ma in secondo piano senza incombere con la sua massa sul volto, su cui si concentra l’indagine psicologica. L’abbigliamento dell’uomo è tipico della moda nobiliare spagnola della seconda metà del XVII secolo, caratterizzata dal farsetto di seta pesante o velluto nero, con imbottitura sulle braccia in ampi sbuffi, convergente a «V» nel corsetto centrale stretto in vita, il tipico colletto inamidato detto golilla, secondo la severa moda ispanica dell’età di Filippo IV e Carlo II.

Una simile foggia, quasi una divisa, è indossata da alti dignitari e funzionari della diplomazia reale, come il marchese del Carpio ambasciatore a Roma dal 1677 al 1683 in un suo ritratto disegnato sempre dal Voet (Madrid, Biblioteca Nacional) o il marchese di Villasierra, che fu ambasciatore a Venezia, in un ritratto di Juan Carreño de Miranda dipinto attorno al 1675 (Madrid, Museo Lázaro Galdiano). Siamo quindi sicuramente al cospetto di un dignitario di spicco residente nelle località frequentate da Voet nel periodo indicato.

Il più illustre diplomatico spagnolo presente al tempo tra Roma e Milano, oltre al marchese del Carpio, fu Don Juan Tomás Enríquez de Cabrera, conte di Melgar (Genova 1646 - Estremoz 1705), nominato ambasciatore straordinario presso la santa Sede nel 1676. In effetti, dal 1669 e ufficialmente tra il 1672 e il 1677, l’incarico diplomatico era stato esercitato ad interim da padre Johann Eberhard Nithard, divenuto cardinale nel 1671. Il compito di Melgar era sostenere gli interessi della Spagna in occasione del conclave aperto dopo la morte di Clemente X, sopraggiunta il 22 luglio 1676, appoggiando la candidatura del cardinale Benedetto Odescalchi, che effettivamente venne eletto papa il 21 settembre con il nome di Innocenzo XI.

Successivamente Enríquez de Cabrera fu chiamato ad assumere la carica di governatore del Ducato di Milano, ove risiedette tra il 1678 e il 1686, sebbene nel 1685 fosse ancora a Roma come ambasciatore. Il padre lo aveva designato conte di Melgar e solo dopo la morte di questi nel 1691 poté assumere tutti i titoli della casata, compreso quello di VII duca di Medina de Rioseco. Filippo V lo nominò nel 1702 ambasciatore in Francia, ma i contrasti con la dispotica corte di Luigi XIV lo portarono in esilio in Spagna e poi in Portogallo, ove morì nel 1705. Aveva sposato in prime nozze nel 1662 Ana Catalina de la Cerda Portocarrero, figlia di Antonio de la Cerda VII duca di Medinacoeli, in seconde nozze nel 1691 Ana Catalina de la Cerda y de Cardona-Aragón (1663-98), vedova dal 1690 di Pedro Antonio de Aragón V duca di Segorbe, viceré di Napoli (1664 - 1671). Dopo la morte prematura dei figli, i suoi beni passarono agli eredi del fratello Luis IV Enríquez de Cabrera. Il conte di Melgar quindi sarebbe tra i candidati più probabili alla identificazione.

Sono note alcune incisioni rappresentanti il nobile spagnolo nella veste ufficiale di governatore e capitano generale di Milano, che ci restituiscono caratteri fisiognomici tra loro non perfettamente omogenei. Le più fedeli tra loro e per qualità sono le due incisioni di Cesare Fiori e Georges Tasniere del 1680 (Biblioteca Nazionale dell’Austria; Madrid, Biblioteca Nacional), che lo raffigurano in armatura ma con jabot e papillon secondo la dilagante moda francese.
Mi sembra che soprattutto l’incisione di Fiori e Tasniere che lo ritrae a mezzo busto in cornice ovale, consenta un confronto persuasivo: simile il volto molto caratterizzato, con il naso forte e allargato alla radice, le labbra carnose, la lunga capigliatura con scriminatura centrale, l’orbicolare della bocca accentuato e persino il colore chiaro degli occhi che l’incisione sembra suggerire.

Ma una conferma di tale ipotesi viene anche per via documentaria. Infatti Giorgio Bonola (1657-1700), allievo a Milano di Voet nel 1680, aveva eseguito una copia del ritratto del diplomatico di mano dal maestro fiammingo assieme a quello della moglie, documentati nel suo repertorio per l’anno 1680: «95. Ritratto della contessa di Melgar L. 10 / 96. Ritratto del conte di Melgar GB [Giorgio Bonola]. Ha copp. dal med.o Ferd. Voet L. 10» (Milano, archivio Bonola).

Tali copie e gli originali, su cui si era soffermata Cristina Geddo nel 2001, sono stati sino ad oggi considerati perduti, sino al ritrovamento del dipinto in esame, che può ritenersi a tutti gli effetti la prima versione del ritratto del conte di Melgar, data la sua qualità. Bonola frequentò la bottega di Voet per cinque mesi, quindi molto probabilmente il ritratto venne eseguito durante il soggiorno lombardo dell’artista fiammingo e copiato quando si trovava in preparazione nel suo studio, prima di essere consegnato al governatore. All’epoca Melgar aveva trentaquattro anni, età compatibile con quella dimostrata dall’uomo nel ritratto.
A differenza delle incisioni che lo rappresentano in veste militare di capitano generale, l’effigie del Voet lo raffigura in abito ufficiale di diplomatico spagnolo come governatore di Milano.

In ogni caso i rapporti del Voet con la nobiltà iberica sono dimostrati dal fatto che fosse stato convocato da Carlo II in Spagna per eseguire ritratti della corte, peraltro confermati dalla presenza nella collezione del marchese del Carpio secondo l’inventario del 1683 dei ritratti degli stessi sovrani.

LUCE DEL BAROCCO AD ARICCIA
1. 50 opere barocche da raccolte private a Palazzo Chigi
2. Il curatore Francesco Petrucci presenta la mostra a Palazzo Chigi
3. Due prestiti dell'antiquaria Miriam Di Penta alla mostra di Palazzo Chigi

Fig. 1 G. B. Falda, «Piazza di corte ad Ariccia»

Fig. 2 La cupola della Collegiata dell'Assunta ad Ariccia, di Gianlorenzo Bernini

«Angelo allegorico», di Gianlorenzo Bernini

Un brano dall’inventario ereditario dei beni di Prospero Bernini senior (1694-1771) del 12 agosto 1771

Fig. 5 «Transito di san Giuseppe», di Giovan Battista Beinaschi

Fig. 6 «Ritratto del conte di Melgar», di Jacob Ferdinand Voet

Francesco Petrucci, 01 ottobre 2020 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Il manufatto in rame dorato faceva parte delle ornamentazioni che Giovan Lorenzo Bernini aveva ideato per Flavio Chigi, il «cardinal nepote» di papa Alessandro VII.  Rintracciato in una collezione privata, è stato acquistato dal Ministero della Cultura per la dimora caposaldo del Barocco berniniano

Il conservatore del museo, Francesco Petrucci, racconta le vicende travagliate di un dipinto che dal 14 ottobre sarà finalmente visibile al pubblico

Mondanità e segregazione: la «galleria delle belle» e la «galleria delle monache»

Luce del Barocco ad Ariccia | 2 | Francesco Petrucci

Luce del Barocco ad Ariccia | 2 | Francesco Petrucci